Computer grafica e fotografia si mescolano nella pittura particolarissima di Massimo Falsaci dando vita a immagini sintetiche, fresche, come ritagliata sulla tela, costruite in campiture dai colori acidi che emergono come apparizioni dal bianco abbagliante del fondo.
I soggetti sono architetture metropolitane colte in inquadrature trompe-l'oeil oppure corpi fermati in immagini dai contorni imperfetti, come istantanee scattate troppo in fretta.
Fotografie prese da riviste, da internet o che scatta lui stesso, diventando nelle mani di Massimo Falsaci, dopo un'elaborazione digitale, acrilici su tela dalle cromie rutilanti. Ritratti in primissimo piano giocati su pochissimi elementi o scorci di città gremiti di dettagli.
I soggetti sono architetture metropolitane colte in inquadrature trompe-l'oeil oppure corpi fermati in immagini dai contorni imperfetti, come istantanee scattate troppo in fretta.
Fotografie prese da riviste, da internet o che scatta lui stesso, diventando nelle mani di Massimo Falsaci, dopo un'elaborazione digitale, acrilici su tela dalle cromie rutilanti. Ritratti in primissimo piano giocati su pochissimi elementi o scorci di città gremiti di dettagli.
[...] Il linguaggio del giovane artista è l’esito di una elaborazione stilistica di queste fasi e allora capita che le immagini digitali, dalle quali egli parte come punto di ispirazione, si sviluppino nella pittura acrilica con il “sapore” dei sogni irraggiungibili.
Le cromie, una gamma limitata di quattro, al massimo cinque colori, sono tratte da foto digitali, elaborate digitalmente e riprese con campiture piatte ad acrilico. Una scelta questa che accentua la generale sensazione di straniamento.
Siamo “fuori dalla realtà”, siamo in una dimensione artificiale, sia quando si descrive il caos (e, in questo caso, l’essere “fuori” è dato dal fatto di non essere “dentro la realtà” autentica dell’essere umano, in quanto piegati a una dimensione che fa delle persone delle schegge impazzite) e siamo “fuori dalla realtà” anche quando Falsaci racconta la dimensione ideale di una agorà virtuale, risposta filosofica ai molteplici intrecci delle vie urbani brulicanti di vita e, al tempo stesso, somma di solitudini.
Ci vengono alla mente le dichiarazioni di Italo Calvino intorno al suo capolavoro Le città invisibili (1972): lo scrittore ammetteva di avere elaborato una sorta di ultimo poema d’amore alle città, proprio nel momento in cui diventa sempre più difficile viverla come tale, un sogno nato dalla crisi.
A distanza di anni, nel 1999, Claudio Magris riprende nel suo Utopia e disincanto una riflessione tanto semplice quanto illuminata: “L’utopia dà un senso alla vita perché esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso”. Lo stesso autore confessa che tale impegno non si esaurisce mai: “Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso, per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo”.
Ecco allora la risposta di una nuova generazione, ecco l’impegno a “spingere il masso”, con i mezzi della pittura. Falsaci ne è pienamente consapevole e non tragga in inganno la sensazione che avvolge chi si avvicini una prima volta al suo lavoro. Inizialmente si viene catturati dal piacere di una pittura squillante, essenziale, alla ricerca di semplificazione del soggetto ma subito dopo si percepisce che siamo già entrati nella sua deliziosa trappola e che il piacere della visione è, in realtà, il primo mezzo per esprimere concetti ben più profondi. L’artista ci accompagna alla visione per denunciare quanto sia disumano il nostro percorrere le strade del mondo senza mai raggiungere un punto di incontro reale con l’altro da sé, nella luce solarizzata si mettono a nudo le fragilità delle persona, l’insaziabile (e non saziato) desiderio di armonia, le città ostili. [...].
Le cromie, una gamma limitata di quattro, al massimo cinque colori, sono tratte da foto digitali, elaborate digitalmente e riprese con campiture piatte ad acrilico. Una scelta questa che accentua la generale sensazione di straniamento.
Siamo “fuori dalla realtà”, siamo in una dimensione artificiale, sia quando si descrive il caos (e, in questo caso, l’essere “fuori” è dato dal fatto di non essere “dentro la realtà” autentica dell’essere umano, in quanto piegati a una dimensione che fa delle persone delle schegge impazzite) e siamo “fuori dalla realtà” anche quando Falsaci racconta la dimensione ideale di una agorà virtuale, risposta filosofica ai molteplici intrecci delle vie urbani brulicanti di vita e, al tempo stesso, somma di solitudini.
Ci vengono alla mente le dichiarazioni di Italo Calvino intorno al suo capolavoro Le città invisibili (1972): lo scrittore ammetteva di avere elaborato una sorta di ultimo poema d’amore alle città, proprio nel momento in cui diventa sempre più difficile viverla come tale, un sogno nato dalla crisi.
A distanza di anni, nel 1999, Claudio Magris riprende nel suo Utopia e disincanto una riflessione tanto semplice quanto illuminata: “L’utopia dà un senso alla vita perché esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso”. Lo stesso autore confessa che tale impegno non si esaurisce mai: “Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso, per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo”.
Ecco allora la risposta di una nuova generazione, ecco l’impegno a “spingere il masso”, con i mezzi della pittura. Falsaci ne è pienamente consapevole e non tragga in inganno la sensazione che avvolge chi si avvicini una prima volta al suo lavoro. Inizialmente si viene catturati dal piacere di una pittura squillante, essenziale, alla ricerca di semplificazione del soggetto ma subito dopo si percepisce che siamo già entrati nella sua deliziosa trappola e che il piacere della visione è, in realtà, il primo mezzo per esprimere concetti ben più profondi. L’artista ci accompagna alla visione per denunciare quanto sia disumano il nostro percorrere le strade del mondo senza mai raggiungere un punto di incontro reale con l’altro da sé, nella luce solarizzata si mettono a nudo le fragilità delle persona, l’insaziabile (e non saziato) desiderio di armonia, le città ostili. [...].
Le opere di Massimo Falsaci propongono di mettere in evidenza un rinnovato modo di concepire l’arte figurativa, presentando in forme originali una diversa iconografia delle immagini, per lo più influenzata dai mass media.
L’artista piemontese costruisce le sue composizioni con un disegno quasi grafico, sfruttando la luce e il colore, per creare figure diverse, ridotte all’essenziale, dentro cui vibra un’anima illuminata di poesie e d’emozioni estasiate.
Ci troviamo di fronte a meditate elaborazioni, trasfigurate in sintesi moderne, che pittoricamente sono il risultato di uno spontaneo sentire e di un interno interrogarsi. Pertanto, Massimo Falsaci, quando inserisce nelle opere simboli e segni strutturali, si prefigge un’operazione di recupero in “codice”, attraverso il ribaltamento di domande dal significato al significante.
Egli, inoltre, usa le metafore sulla completezza e sulla frammentazione, scovando immagini da particolari scorci dell’ambiente e del tempo in cui viviamo.
A chi pensa che la potenzialità dell’espressione pittorica sia consumata, questi “legami” senza titoli appaiono come una riflessione sul linguaggio delle arti visive, che hanno il privilegio di poter comporre, in un unico discorso concettuale, emblemi diversi, oggetti, scritte, colori e rappresentazioni della realtà apparente o astratta. Estratto da: “Nuova Arte” Ed. Giorgio Mondadori – a cura di Paolo Levi.
L’artista piemontese costruisce le sue composizioni con un disegno quasi grafico, sfruttando la luce e il colore, per creare figure diverse, ridotte all’essenziale, dentro cui vibra un’anima illuminata di poesie e d’emozioni estasiate.
Ci troviamo di fronte a meditate elaborazioni, trasfigurate in sintesi moderne, che pittoricamente sono il risultato di uno spontaneo sentire e di un interno interrogarsi. Pertanto, Massimo Falsaci, quando inserisce nelle opere simboli e segni strutturali, si prefigge un’operazione di recupero in “codice”, attraverso il ribaltamento di domande dal significato al significante.
Egli, inoltre, usa le metafore sulla completezza e sulla frammentazione, scovando immagini da particolari scorci dell’ambiente e del tempo in cui viviamo.
A chi pensa che la potenzialità dell’espressione pittorica sia consumata, questi “legami” senza titoli appaiono come una riflessione sul linguaggio delle arti visive, che hanno il privilegio di poter comporre, in un unico discorso concettuale, emblemi diversi, oggetti, scritte, colori e rappresentazioni della realtà apparente o astratta. Estratto da: “Nuova Arte” Ed. Giorgio Mondadori – a cura di Paolo Levi.
La città è anche specchio della propria cultura. Sono le architetture urbane le protagoniste delle opere di Massimo Falsaci.
Architetture che raccontano un periodo, una società e che, viste dalla prospettiva futura della storia, testimonieranno di noi e della nostra civiltà alla stregua delle arene, degli acquedotti e delle ville romane.
Il paesaggio urbano, con i suoi monocromatismi, le sue linee perfettamente dritte, le forme squadrate dei palazzi, diventa la tela bianca su cui Falsaci stende i suoi colori, esaspera i toni, sottolinea la luce; il rigore dell’architettura si arricchisce della morbidezza del colore, l’artista ri-inventa la sua città, personalizza, come fa idealmente ognuno di noi, lo spazio che lo circonda. Intervenendo e modificando virtualmente il paesaggio, Falsaci sottolinea la necessità di trasformarsi da fruitore passivo a creatore attivo del proprio ambiente.
Architetture che raccontano un periodo, una società e che, viste dalla prospettiva futura della storia, testimonieranno di noi e della nostra civiltà alla stregua delle arene, degli acquedotti e delle ville romane.
Il paesaggio urbano, con i suoi monocromatismi, le sue linee perfettamente dritte, le forme squadrate dei palazzi, diventa la tela bianca su cui Falsaci stende i suoi colori, esaspera i toni, sottolinea la luce; il rigore dell’architettura si arricchisce della morbidezza del colore, l’artista ri-inventa la sua città, personalizza, come fa idealmente ognuno di noi, lo spazio che lo circonda. Intervenendo e modificando virtualmente il paesaggio, Falsaci sottolinea la necessità di trasformarsi da fruitore passivo a creatore attivo del proprio ambiente.
Le opere di Massimo Falsaci sono scatti rubati alla nostra realtà, immagini consumate velocemente a cui non abbiamo prestato attenzione pronte per essere gettate via, dimenticate. Prospettive centrali, inquadrature imperfette, istantanee di una vita quotidiana un po' banale.
Falsaci fa proprie queste immagini, le trasforma le manipola, dona loro un po' di magia ed esse rinascono dalle acque interiori dell'artista, dal quel mare di esperienze che hanno forgiato una sensibilità e un senso critico raffinato e un tantino inconsapevole.
Con leggerezza , ironia e attenzione ci viene proposta una critica misurata al vivere contemporaneo.
Le città non sono più dei luoghi in cui la natura è protagonista: è un ammasso di architetture che l'occhio umano non riesce ad includere in un solo sguardo. Sono cattedrali di modernità che rilucono di colori chimici, che svettano imponenti e minacciose sull'uomo.
L'uomo è assuefatto ai ritmi delle città: è trascinato da un fiume che rischia di affogarlo.
L'uomo è immerso in un mondo che di naturale ha poco ed egli stesso sembra aver perso la propria individualità la propria naturalezza, il contatto con la propria anima.
Le figure sono semplificate nei tratti e ridotte ai minimi termini (cromaticamente parlando)quasi fossero incasellati in schemi ben definiti in canali rigorosi che ne definisco i tratti dominanti (non più di tre o quattro).La società contemporanea ci impedisce di essere noi stessi, di manifestare con orgoglio e naturalezza la nostra diversità, la nostra unicità stravolgente, l’avere mille facce come una sfera e non solo 6 come un cubo.
Falsaci ci stupisce con opere ironiche e intriganti ci prende in giro mostrandoci un futuristico decadentismo che ci piace perché è nostro perché lo viviamo dì per dì.
Falsaci fa proprie queste immagini, le trasforma le manipola, dona loro un po' di magia ed esse rinascono dalle acque interiori dell'artista, dal quel mare di esperienze che hanno forgiato una sensibilità e un senso critico raffinato e un tantino inconsapevole.
Con leggerezza , ironia e attenzione ci viene proposta una critica misurata al vivere contemporaneo.
Le città non sono più dei luoghi in cui la natura è protagonista: è un ammasso di architetture che l'occhio umano non riesce ad includere in un solo sguardo. Sono cattedrali di modernità che rilucono di colori chimici, che svettano imponenti e minacciose sull'uomo.
L'uomo è assuefatto ai ritmi delle città: è trascinato da un fiume che rischia di affogarlo.
L'uomo è immerso in un mondo che di naturale ha poco ed egli stesso sembra aver perso la propria individualità la propria naturalezza, il contatto con la propria anima.
Le figure sono semplificate nei tratti e ridotte ai minimi termini (cromaticamente parlando)quasi fossero incasellati in schemi ben definiti in canali rigorosi che ne definisco i tratti dominanti (non più di tre o quattro).La società contemporanea ci impedisce di essere noi stessi, di manifestare con orgoglio e naturalezza la nostra diversità, la nostra unicità stravolgente, l’avere mille facce come una sfera e non solo 6 come un cubo.
Falsaci ci stupisce con opere ironiche e intriganti ci prende in giro mostrandoci un futuristico decadentismo che ci piace perché è nostro perché lo viviamo dì per dì.
"Un legame strettissimo pone in diretta correlazione i due acrilici di Massimo Falsaci, rispettivamente intitolati Passato… e Futuro?
Questo trait d’union è, chiaramente, il tempo, visto trascorrere attraverso una speciale lente d’ingrandimento bifocale, quella che da un lato rappresenta un edificio universalmente conosciuto qual è il Colosseo, nel primo dipinto, e dall’altro lato ha nelle pale eoliche il simbolo di un futuro ormai prossimo dove la tecnologia pare essere destinata, dopo un estenuante corsa verso soluzioni difficilmente percorribili, a volte persino estreme e quindi talvolta potenzialmente pericolosa per il destino del nostro pianeta, ad un ritorno alle origini, con la fonte più naturale possibile, il vento.
Una notevole capacità prospettica si evince in questi pezzi, realizzati con una tecnica in grado di rendere cristallini anche i più arditi passaggi tonali, lambendo una dissolvenza che si attua nel pensiero dell’osservatore e che per questo avvolge l’intera composizione.
Da osservare, con molto scrupolo, sono parimenti le scelte cromatiche, che conferiscono all’insieme un movimento gravitazionale che, partendo da un punto preciso - quello su cui lo sguardo si sofferma - si estende all’intero soggetto secondo una progressione aritmetica di ombre, luci e lame chiaroscurali, da scoprire piacevolmente, poco a poco“. Estratto dal catalogo della mostra One Planet - Rieti.
Questo trait d’union è, chiaramente, il tempo, visto trascorrere attraverso una speciale lente d’ingrandimento bifocale, quella che da un lato rappresenta un edificio universalmente conosciuto qual è il Colosseo, nel primo dipinto, e dall’altro lato ha nelle pale eoliche il simbolo di un futuro ormai prossimo dove la tecnologia pare essere destinata, dopo un estenuante corsa verso soluzioni difficilmente percorribili, a volte persino estreme e quindi talvolta potenzialmente pericolosa per il destino del nostro pianeta, ad un ritorno alle origini, con la fonte più naturale possibile, il vento.
Una notevole capacità prospettica si evince in questi pezzi, realizzati con una tecnica in grado di rendere cristallini anche i più arditi passaggi tonali, lambendo una dissolvenza che si attua nel pensiero dell’osservatore e che per questo avvolge l’intera composizione.
Da osservare, con molto scrupolo, sono parimenti le scelte cromatiche, che conferiscono all’insieme un movimento gravitazionale che, partendo da un punto preciso - quello su cui lo sguardo si sofferma - si estende all’intero soggetto secondo una progressione aritmetica di ombre, luci e lame chiaroscurali, da scoprire piacevolmente, poco a poco“. Estratto dal catalogo della mostra One Planet - Rieti.
L'artista trae ispirazione dalle fotografie che egli stesso scatta, dai giornali, riviste ecc., comunque da immagini che al di fuori della loro bellezza gli trasmettono delle emozioni.
Falsaci ha tutto un suo modo particolare di dipingere: scompone la figura sulla tela in aree alle quali corrispondono diversi colori, come in un puzzle.
L'effetto è simile a quello della fotografia, ma qui le emozioni e i sentimenti vengono espressi dal colore, di solito forte e vivido, per creare contrasti decisi.
Le opere sembrano illuminate da una luce intensa, quasi irreale.
Falsaci non ritrae i protagonisti dello star-system, come potrebbe sembrare per un moderno ritrattista (troppo facile e scontato), ma personaggi comuni, presentandoceli nella sua personale visione, nella chiave umanistica che lo contraddistingue, dal paesaggio umano a quello naturale, quasi astratto (vedi certe immagini di fiori).
Falsaci gioca con i sensi dello spettatore, sfruttando luci e prospettive, mette in scena la sua anima di artista, a prescindere dal soggetto dipinto, registrando con disinvoltura, oltre alla tecnica, il sentimento e la sensibilità.
Tutti i ritratti di Falsaci sembrano la metafora del suo stato d'animo, le immagini delle sue emozioni.
Sono tutte "storie dal volto umano" dove in ognuna di esse si può facilmente riconsscere il carattere, sia nell'espressione che negli atteggiamenti; una figurazione legata ad immagini che l'artista ama ritrarre anche fotograficamente o tratte da giornali e riviste.
Questi volti sarebbero piaciuti all'amico Andy Warhol, che per le sue imnmagini pop-artistiche usava prima la polaroid, poi la tecnica serigrafica, ma mentre l'artista americano si avvaleva di volti noti (Marilyn Monroe, Liz Taylor o Elvis Presley) e di avare cromie, Falsaci usa immagini di volti sconosciuti in quanto a lui non interessa far risaltare la notorietà ma quello che c'è all'interno di un volto (lo spirito e l'anima del volto stesso), sarebbe sufficiente osservare opere come "Il ricordo di un amore", "La vendetta", "Metropolitan Beach", "Nelll'intimità", "New Generation" o "Pensiero stupendo" per renderci conto di quanto abbiamo detto sull'anonimato dei personaggi che descrive questo artista.
Due cose simili ma fortemente contrastanti; più tecnica e retorica quella di Warhol, più artisticità, personale e introspettica, quella di Falsaci. Mentre Warhol fornisce una forma ai volti noti, Falsaci dipimnge le gioie e le inquietudini dei volti sconosciuti, allo scopo di reinventare una figurazione più "nobile", che oltre alle fattezze ci faccia intuire anche i sentimenti, buoni e cattivi che siano.
L'artista dipinge e sembra voler parlare con i personaggi che disegna, come a cercare di liberare da quelle figure i fantasmi dell'inconscio e convertirli in stimoli per l'osservatore.
Si tratta di un nuovo linguaggio non verbale per arrivare all'anima delle cose, all'essenza della pittura classica in chiave moderna.
In definitiva, mentre Warhol, usando i mezzi della fotografia e della serialità, rende più evidente il senso della perdita di identità (se il volto non fosse noto non comunicherebbe alcuna emozione), Falsaci, usando la pittura e il colore vivo, non si interessa della riconoscibilità del soggetto, ma della sua interiorità. E' questo il ruolo del vero artista, quello di reinventare cose già esistenti, scavando nel loro più profondo, come un profeta o un veggente.
Falsaci ha tutto un suo modo particolare di dipingere: scompone la figura sulla tela in aree alle quali corrispondono diversi colori, come in un puzzle.
L'effetto è simile a quello della fotografia, ma qui le emozioni e i sentimenti vengono espressi dal colore, di solito forte e vivido, per creare contrasti decisi.
Le opere sembrano illuminate da una luce intensa, quasi irreale.
Falsaci non ritrae i protagonisti dello star-system, come potrebbe sembrare per un moderno ritrattista (troppo facile e scontato), ma personaggi comuni, presentandoceli nella sua personale visione, nella chiave umanistica che lo contraddistingue, dal paesaggio umano a quello naturale, quasi astratto (vedi certe immagini di fiori).
Falsaci gioca con i sensi dello spettatore, sfruttando luci e prospettive, mette in scena la sua anima di artista, a prescindere dal soggetto dipinto, registrando con disinvoltura, oltre alla tecnica, il sentimento e la sensibilità.
Tutti i ritratti di Falsaci sembrano la metafora del suo stato d'animo, le immagini delle sue emozioni.
Sono tutte "storie dal volto umano" dove in ognuna di esse si può facilmente riconsscere il carattere, sia nell'espressione che negli atteggiamenti; una figurazione legata ad immagini che l'artista ama ritrarre anche fotograficamente o tratte da giornali e riviste.
Questi volti sarebbero piaciuti all'amico Andy Warhol, che per le sue imnmagini pop-artistiche usava prima la polaroid, poi la tecnica serigrafica, ma mentre l'artista americano si avvaleva di volti noti (Marilyn Monroe, Liz Taylor o Elvis Presley) e di avare cromie, Falsaci usa immagini di volti sconosciuti in quanto a lui non interessa far risaltare la notorietà ma quello che c'è all'interno di un volto (lo spirito e l'anima del volto stesso), sarebbe sufficiente osservare opere come "Il ricordo di un amore", "La vendetta", "Metropolitan Beach", "Nelll'intimità", "New Generation" o "Pensiero stupendo" per renderci conto di quanto abbiamo detto sull'anonimato dei personaggi che descrive questo artista.
Due cose simili ma fortemente contrastanti; più tecnica e retorica quella di Warhol, più artisticità, personale e introspettica, quella di Falsaci. Mentre Warhol fornisce una forma ai volti noti, Falsaci dipimnge le gioie e le inquietudini dei volti sconosciuti, allo scopo di reinventare una figurazione più "nobile", che oltre alle fattezze ci faccia intuire anche i sentimenti, buoni e cattivi che siano.
L'artista dipinge e sembra voler parlare con i personaggi che disegna, come a cercare di liberare da quelle figure i fantasmi dell'inconscio e convertirli in stimoli per l'osservatore.
Si tratta di un nuovo linguaggio non verbale per arrivare all'anima delle cose, all'essenza della pittura classica in chiave moderna.
In definitiva, mentre Warhol, usando i mezzi della fotografia e della serialità, rende più evidente il senso della perdita di identità (se il volto non fosse noto non comunicherebbe alcuna emozione), Falsaci, usando la pittura e il colore vivo, non si interessa della riconoscibilità del soggetto, ma della sua interiorità. E' questo il ruolo del vero artista, quello di reinventare cose già esistenti, scavando nel loro più profondo, come un profeta o un veggente.
L’uso della fotografia, del computer, delle tecniche di elaborazione digitale sono parte integrante del discorso di Massimo Falsaci. L'artista con ironia e sensibilità parla dell'uomo, del mondo, di come viviamo (o subiamo) il rapporto con le nostre città
Artista dalla formazione poliedrica (illustrazione, acquarello e tecniche pittoriche varie) Massimo Falsaci (Verbania 1974) crea un immaginario personale e di forte impatto comunicativo.
Legato al filone della Nuova Figurazione, il suo lavoro prende a piene mani dall'immaginario contemporaneo plasmato, ma anche inquinato, dai mass media. Utilizza quindi fotografie scattate da lui stesso, oppure prese da quotidiani, riviste, o anche da internet, che vengono rielaborate al computer per accentuare colori e contrasti ed arrivare così allo scheletro, all'essenza delle stesse.
A questo punto il risultato viene riportato su tela, scomposto e colorato in acrilico, con l'utilizzo di un numero limitato di colori e l'assenza totale di sfumature, per arrivare ad un risultato quasi grafico, che toglie morbidezza e vita, ma anche non smette di coinvolgere.
Ed è proprio il togliere con precisione e parsimonia, la cifra con cui le sue opere si confrontano con il contemporaneo, illudono e svaniscono, lasciando una traccia fredda quanto realistica
Legato al filone della Nuova Figurazione, il suo lavoro prende a piene mani dall'immaginario contemporaneo plasmato, ma anche inquinato, dai mass media. Utilizza quindi fotografie scattate da lui stesso, oppure prese da quotidiani, riviste, o anche da internet, che vengono rielaborate al computer per accentuare colori e contrasti ed arrivare così allo scheletro, all'essenza delle stesse.
A questo punto il risultato viene riportato su tela, scomposto e colorato in acrilico, con l'utilizzo di un numero limitato di colori e l'assenza totale di sfumature, per arrivare ad un risultato quasi grafico, che toglie morbidezza e vita, ma anche non smette di coinvolgere.
Ed è proprio il togliere con precisione e parsimonia, la cifra con cui le sue opere si confrontano con il contemporaneo, illudono e svaniscono, lasciando una traccia fredda quanto realistica